cappelletti in brodo
il "caplitaz" fa parte delle tradizioni ormai perdute (Shutterstock.com)

Un giochino ormai dimenticato che fa viaggiare indietro nel tempo fino alla vita più semplice di una volta

I cappelletti in brodo sono uno dei piatti più importanti nella tradizione culinaria romagnola. Non mancano mai nei menù delle feste natalizie o la domenica a pranzo, e tutte le azdore non sono tali se non sanno prepararli.

Uno dei “giochi” più divertenti e ormai dimenticati di questa pasta è il cosiddetto “e caplitaz”, uno scherzo che appartiene solo alle storie dei nonni e all’inizio del secolo scorso.

Ogni anno, quando l’azdora preparava la minestra per tutta la famiglia, si assicurava sempre di fare un cappelletto più grande degli altri – il “caplitaz”, appunto, il cappellaccio. Questo cappelletto enorme assicurava fortuna per tutto l’anno a chi l’avesse trovato nel piatto, e di solito si faceva in modo che finisse nel piatto del commensale più giovane. A volte, invece, veniva riempito di pepe per fare uno scherzo al più goloso della tavolata.

Ecco come ne parla il giornalista romagnolo Max David nella prefazione al ricettario “Romagna in bocca”:

Dimenticavo un particolare che forse oggi è in disuso. Nella zuppiera dei cappelletti, in fondo, Si metteva, di nascosto “e caplitaz”, cioè un cappelletto che era almeno tre volte più grande dei normali. Chi l’avesse pescato, rimescolando nel brodo della zuppiera, avrebbe avuto fortuna per tutto l’anno. Inutile aggiungere che si faceva in modo di far finire “e caplitaz” nel piattò del commensale più giovane, o del figlio del padrone. Per cui posso dire di essere notevolmente cresciuto in statura, tra i 16 e i 18 anni, per merito del “caplitaz”.