Storia della fuga in Terra di Romagna
Caduta la Repubblica romana, Garibaldi, il 2 luglio 1849, fuggì, risalendo la penisola, con lui la moglie Anita, incinta di sei mesi.
Anita, aveva incontrato Garibaldi nel 1839 e l’aveva sposato a Montevideo, nel 1842. Madre dei suoi figli e compagna di tutte le sue battaglie, diventa una rivoluzionaria italiana ed entra nella leggenda romantica del Risorgimento, incarnando una figura di donna guerriera che combatte per i diritti dei popoli e l’uguaglianza dei cittadini.
Il mito di Anita è legato fortemente alle cause tragiche della sua morte. I documenti governativi dell’epoca accostano al racconto leggendario gli aspetti crudamente realistici della vicenda, mostrandoci un’Anita vera, umana e fragile nel corso degli ultimi giorni, fino al ritrovamento del suo cadavere sotto un banco di sabbia, nel territorio di Ravenna.
Garibaldi arrivò a San Marino il 31 luglio, dove, sciolte le truppe, rimase con circa 250 fedelissimi. Si diresse verso Cesenatico e s’imbarcò, ma intercettato dall’esercito austriaco, fu costretto a sbarcare presso Magnavacca, da dove si inoltrò verso l’interno con il luogotenente Leggiero e la moglie, ormai stremata. Un rapporto del Comando della Tenenza di Comacchio del 6 agosto, racconta: «… Garibaldi, travestita la moglie da uomo, postala su di un giumento, aveva presa la via che a Pomposa conduce». I fuggiaschi trovarono rifugio alle Mandriole, nella fattoria dei marchesi Guiccioli condotta da Stefano Ravaglia. Era la sera del 4 agosto, e Anita morì fra le braccia del marito, a cui i fratelli Ravaglia promisero che l’avrebbero seppellita degnamente. Ma i Ravaglia, invece, preoccupati dalle indagini della polizia, si affrettarono a liberarsi del cadavere, seppellendolo a poca distanza dalla casa quel corpo fu ritrovato, da alcuni bambini che giocavano. Nel rapporto alla Direzione provinciale di polizia di Ravenna del 12 agosto 1849 viene descritto il corpo di una donna incinta ritrovato nella sabbia: «Era vestita di camicia di cambric bianco, di sottana simile, di bournous egualmente di cambric, fondo paonazzo, fiorato di bianco, scalza nelle gambe e nei piedi, senza alcun ornamento alle dita, al collo, alle orecchie, tuttoché forate».
La storia ufficiale sostiene che morì di febbri vicino a Ravenna, ma c’è un’altra versione documentata e raccontata dalla principessa Cristina Trivulzio di Belgiojoso, matriota militante a quell’epoca, nel suo “Il 1848 a Milano e a Venezia”, Universale Economica Feltrinelli 2011
A Mandriole, fuori Ravenna, ancora oggi esiste un cippo commemorativo nel luogo in cui il suo corpo fu sepolto senza bara sotto la sabbia