
A Ravenna han dedicato loro una rotonda, ma in pochi sanno veramente chi erano i pinaroli, i mitici raccoglitori di pinoli.
Il Breve del 1588 di Papa Sisto V, che restò in vigore per oltre duecento anni, definiva la pineta “ornamento di tutta Italia” e, al fine di preservarla, nel dettava le regole per una corretta gestione: vietava il taglio dei ginepri e dei rovi senza cui i pini seminati non potevano crescere e permetteva solo ai monaci il taglio dei pini secchi o atterrati, pena la scomunica.
La comunità ravennate sfruttava tutte le risorse offerte dalla pineta, che a molte famiglie povere garantivano la sopravvivenza, perciò si andava nel bosco anche per praticare la caccia e la pesca e raccogliere frutti, erbe selvatiche e pigne.
Nell’ Istoria civile e naturale delle pinete ravennati del 1774, Francesco Ginanni afferma che la pineta ravennate produceva circa 600 quintali di pinoli all’anno, considerati come i migliori d’Italia e venduti orgogliosamente col nome di “pinocchi di Ravenna”.
La raccolta delle pigne, tuttavia, era un lavoro faticoso e pericoloso che si svolgeva dall’autunno alla primavera ed era praticato da squadre di giovani, tra cui anche qualche ragazza, chiamati ‘pinaroli’.
Alcuni salivano sui pini e si servivano di bastoni uncinati per piegare i rami, sbattere le pigne o passare da un pino all’altro, altri raccoglievano le pigne a terra e le portavano, dentro sacchi e su carretti, nelle grandi case pinetali, dette Case delle Aie, dove alloggiavano.
In un primo tempo erano ammucchiate, poi scollettate e capocciate, finché si aprivano e fuoruscivano i pinoli.
Giuseppe Pasolini Zanelli, nel 1880, così li descrive: «Sono giovani e svelti e il loro mestiere li obbliga ad essere tali. Essi hanno lunghi bastoni a capo dei quali è un ramponcino di ferro che infiggono in un tronco o appendono ad un ramo; si servono di quelli per salire sui pini; scivolano poi sui pini con sorprendente agilità e mediante l’oscillazione giungono al pino vicino».