Salsiccia matta: storia di un insaccato tipicamente romagnolo
La salsiccia matta è uno di quei prodotti gastronomici figli della povertà. Nella prefazione di “Romagna in bocca”, abbiamo visto cosa ne pensasse l’autore: “È la storia, sono i millenni di papato, di brigantaggio e di miseria che ci hanno abituato [i romagnoli n.d.r] a contentarci di poco, o meglio, di mangiare molto di quel poco che ci veniva lasciato”.
Questa salsiccia nasce sugli appennini tosco-emiliani, ma ben presto si diffonde in tutta la Romagna, da Forlì a Rimini. Il modo di prepararla rispecchia ciò che si diceva poco fa: si mangia quel poco che si ha. La sua preparazione, infatti, è particolare, perché utilizza proprio quegli ingredienti “di scarto” che i contadini di una volta non potevano permettersi di buttare via. E quindi macinatura di carni e frattaglie, parti del maiale che non si usano, sale, pepe, aglio e Sangiovese. Gli ultimi due ingredienti ammorbidiscono la carne.
La forma è quella classica di una salsiccia, ma il colore è più scuro. Il nome deriva proprio da questo, perché popolarmente un ematoma vecchio di alcuni giorni che diventa più scuro “ammattisce”.
Il gusto, per i curiosi, è molto speziato e piccante, soprattutto se esaltato dalla cottura alla griglia.
Oggi questo prodotto non esiste quasi più, o perlomeno non è così diffuso. La sua preparazione popolare e “strana” ha allontanato i contemporanei, ma in alcuni borghi romagnoli ancora si prepara. Di certo, il presidio slowfood con la quale è stata insignita la preserverà a lungo.