Per secoli la canapa è stata intrecciata in tessuti, corde, oggetti di uso comune. Una tradizione che si è interrotta bruscamente negli anni Settanta del secolo scorso, quando le leggi contro gli stupefacenti ne hanno resa quasi impossibile la coltivazione.
La repressione, in verità, non era mirata alla variante ‘sativa‘ ma alla cugina ‘cannabis indica’, per via del noto effetto inebriante.
Si è così interrotta una tradizione secolare che vedeva in Emilia-Romagna, all’inizio del XX secolo, ben 45 mila ettari coltivati a canapa.
In Romagna, poi, la storia della canapa è legata a doppio filo a quella delle celebri tele stampate a ruggine, i canavêz appunto, che dalla loro materia prima prendono il nome,
La Regione Emilia-Romagna ha già una legge del 2007 sulla promozione di questa coltura dai molteplici vantaggi economici.
Si pensi che il tessuto di canapa, come raccontava sempre mia nonna, ex bracciante dei canapai della Romagna estense, è caldo d’inverno e fresco d’estate e ha il merito di non assorbire odori, contrariamente ai tessuti sintetici importati dall’altro capo del mondo.
La carta prodotta da questa pianta quasi miracolosa è oltremodo resistente alle lacerazioni, al calore, alla luce e alle muffe e potrebbe evitare l’abbattimento di tantissimi alberi ogni anno.
Inoltre, nella bio-edilizia, la canapa si è rivelata essere un ottimo isolante, per non parlare del suo uso alimentare particolarmente indicato a celiaci e ai sempre più numerosi intolleranti.
Non da ultimo, mi piace ricordare il valore culturale di questo vegetale: se vogliamo continuare a dare un senso a parole dialettali comuni come “e’ canavaz” o a detti popolari come
“èsar e’ spintac de canavér”, letteralmente lo spaventapasseri del campo coltivato a canapa e riferito a persona malridotta e spettinata, sarebbe bene preservare anche la pianta a cui si riferiscono.