Atelier ceramiche faentine
Laboratorio ceramico di Roberta Padovani a Faenza (foto S.Togni)

Poiché una lingua è lo specchio della mentalità di chi la parla, possiamo affermare che i Romagnoli non sono certo gente dalle mezze misure: per loro è tutto o bianco o nero. Il grigio proprio non esiste.

Il nostro dialetto è certamente colorato e, per seguire l’ordine delle tonalità dell’arcobaleno, prevede un ros, un aranzôn, un zal, un verd, un  cialèst e un viôla, e in aggiunta un rôsa e un maron. Ma il grigio?

Sarà  forse perché il Romagnolo ha un carattere deciso, è un tipo sanguigno  che non ammette le mezze misure, ma tra e’ bianc e e’ negar, non c’è un  grigio, ma al massimoe solo per gli oggetti un bartê.

La parola italiana ‘berrettino’ da  cui proviene lo strano termine romagnolo, è di etimologia incerta ma  nota già al grande Leonardo quando sul finire del XV secolo afferma: «Essendo le piante spogliate delle lor foglie, si dimostran di color berrettino». Esso designa un colore grigiastro, in tutte le tonalità  intermedie che intercorrono tra il bianco e il nero. Ora il termine  berrettino è impiegato quasi esclusivamente in riferimento alle  maioliche che, allo stadio di ‘biscotto’, vengono bagnate in uno smalto di color grigio-celeste.

Cipriano Piccolpasso, detto Durantino  perché originario di Urbania, chiamò ‘bertino’ una miscela di  marzacotto o fritta, stagno e zaffera (blu cobalto), nella sua opera  «Li tre libri dell’arte del vasaio» pubblicata nel 1548. Il grigio come lo intendiamo noi, insomma, non è  ammesso nella tavolozza cromatica dei Romagnoli che, a ben vedere,  scartano anche l’azzurro, un tono di blu che sta fra il celeste, più  pallido, e il turchese, e turchés, più luminoso e tendente al verde.

Così se i Romagnoli non son gente dalle mezze misure, appare impossibile tradurre in dialetto il titolo di un noto romanzo come «Cinquanta sfumature di grigio»; del resto sarebbe improbabile far passare il messaggio di una storia vargulêda ad bartê.