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Da Russi alla savana: Felice Cantimori, per tutti “Cino”, con i suoi dipinti ci racconta la forza travolgente della natura, della luce e dei colori dell’Africa Orientale.

«Io dipingo perché mi piace dipingere quel che mi piace e quando mi piace» (citazione tratta da M. R. Bentini, Cino Cantimori, Edizioni del Girasole, Ravenna, 1995, p. 31): con queste parole Felice “Cino” Cantimori ci restituiva nel 1970 una summa della sua ricerca artistica. 

Per Cantimori, l’arte era libertà, desiderio di evadere da una quotidianità che all’artista risultava stretta, tanto da abbandonare, dopo gli irrequieti anni della formazione giovanile, la natia Romagna.

Cino era infatti nato il 20 settembre del 1906 a Russi, in provincia di Ravenna, ma aveva cominciato presto a sognare terre lontane, dai colori accesi, dalla luce accecante, dalla natura selvaggia.

Dopo aver frequentato negli anni 1921-1922 l’Accademia di Belle Arti di Ravenna, dove fu allievo di Giovanni Guerrini, aveva presto inteso che il mondo accademico lo ingessava, lo limitava e scelse così la via del ‘ribelle’, dell’autodidatta.

Successivamente, dopo la prima permanenza dovuta all’esperienza della guerra, cui si aggiunse anche quella, tragica, della prigionia, decise alla fine degli anni ‘40 di trasferirsi in Africa Orientale, vivendo principalmente tra Uganda, Kenya, Tanganyika (oggi Tanzania). Nel contesto geografico equatoriale, trovò quella natura abbacinante che da tanto tempo andava cercando. Nelle terre africane trascorse gli anni dal 1948 al 1984: periodo felice, per Cino, che dipingeva «sempre teso ad una irraggiungibile verità» (citazione tratta da M. R. Bentini, Cino Cantimori, Edizioni del Girasole, Ravenna, 1995, p. 35), come se il sole africano indicasse con la sua luce la via per conoscenza, senza però mai farsi afferrare.

L’intensa attività pittorica di quegli anni ci restituisce diversi soggetti, dalle nature morte con oggetti del folklore africano alla paesaggistica, fino alla ritrattistica, passando per scene di mercati e scorci di villaggi. Cantimori rappresenta in questi anni quasi sempre una natura rutilante e un’umanità dall’abbigliamento sgargiante.

Chissà quanto gli sarà parsa strana, quasi irreale, la luce, intensa sì, ma sempre mediata dalla foschia, che ritrovò al suo rientro in Romagna, nella sua Russi, nel 1984. Il paese compare apertamente nella produzione pittorica dell’artista, ad esempio in “Veduta di Russi. La Chiesa dei Servi”, del 1986. 

E proprio la sua Russi, dove Cino si spense nel 1993, gli ha dedicato un’intera sala all’interno del Museo Civico.

Suggerimento bibliografico: M. R. Bentini, Cino Cantimori, Edizioni del Girasole, Ravenna, 1995.