Copertina raccolta Talanti
Raccolta degli scritti superstiti di Francesco Talanti

Coltissimo, poliglotta, anticonformista e bizzarro, Francesco Talanti ha segnato profondamente la storia della cultura e della lingua romagnola a cavallo tra il XIX e il XX secolo.

In una burrascosa notte di bora di inizio Ottocento, una bastimento greco diretto a Venezia fa naufragio nel mare di Primaro: i soli superstiti sono due ragazzetti, fratelli, tra i sei e gli otto anni.

Uno di loro, Mariano, si trasferisce in Piemonte, mentre Francesco si stabilisce a Sant’Alberto, non lontano da Ravenna. Dal figlio di lui, Giuseppe, e dalla moglie Teresa Minguzzi, nasce il 2 febbraio 1870 Francesco Talanti, bambino vivace e geniale.

I suoi compaesani, braccianti analfabeti e donne timorate di Dio, non capiscono certamente il suo carattere anticonformista e il suo amore per lo studio, al punto da affibbiargli il nomignolo di “Cech e’ matt”.

Insegna matematica al Collegio scolastico di Intra sul Lago Maggiore, per poi trasferirsi in Svizzera, dove studia francese e tedesco e continua ad insegnare matematica, per poi passare alla prestigiosa Università di Heildelberg, in Germania, come docente di lingua e letteratura italiana.

Una volta imparata anche la “orribile lingua inglese (…) miscuglio di sei o sette lingue”, come la definisce lui stesso, da Londra si imbarca su un piroscafo diretto in Estremo Oriente, che tocca l’India, l’Australia e il Giappone, dove il prof. Sakuna traduce a Tokyo un trattato di algebra che Talanti ha pubblicato in tedesco.

Carducciano e dantista, legge la Divina Commedia sullo stesso piroscafo che lo riporta in Europa. Lascia tutti i suoi libri a Metz, prima di rientrare a Sant’Alberto dove, assieme allo scoppio della prima Guerra mondiale, assiste alla morte della madre.

Durante la guerra, lavora al Genio Militare di Milano ma, tornato a Metz per recuperare i suoi manoscritti, apprende che i soldati francesi hanno svuotato gli scaffali della biblioteca prima di prendersi tutta la città.

Sfiduciato per avere lavorato tanti anni per nulla, rientra a Ravenna dove Santi Muratori, direttore della Classense, lo convince e riscrivere parte delle sue opere.

È in questo periodo che traduce la Divina Commedia in dialetto romagnolo di cui restano però, purtroppo, solo sei canti dell’Inferno, la cui indimenticabile traduzione fa emergere la sua vena comica e la fluidità del verso.

Anche la seconda Guerra mondiale fa scempio delle sue opere; tuttavia, quel poco che resta è sufficiente ad apprezzare il genio di un uomo che malinconicamente si autodefinisce “diverso da tutti gli uomini”.